Selezione di Scritti

Pittura di segni e di confini inafferrabili

La pittura di Alfonso Talotta è un incastro esatto di pietre tagliate e affiancate da abili scalpellini a formare un muro dritto e senza crepe. O meglio, è la storia della sua vicenda pittorica nel suo svolgimento cronologico a presentarsi con questa esattezza. In altri ambiti della creatività, diremmo che la sua poesia pittorica si basa su di un principio scientifico, quello dello sviluppo e del segno (ma le due cose non sono separabili) nel corso di una lunga ricerca sulla forma e il colore.

Il percorso e le tappe della pittura di Talotta sono fin troppo chiari, come dimostra l’occasione di questa sua prima mostra antologica di ampio respiro, il respiro di una vita: 1979-2011.

Dalle impronte lasciate dai pneumatici di un’automobile su tela, ai primi segni che tagliano lo spazio e che poi si incontrano a ritagliare campi cromatici chiusi come appezzamenti di terra visti dall’alto, che via via si arricchiscono di altri campi fino a che in questi spazi di analisi emergono taglienti sagome a forma di vela, pinna di cetaceo, lama di coltello o semplicemente cuneo. Se a questa ricerca bidimensionale affianchiamo quella in tre dimensioni sperimentata ampiamente nella ceramica, lo sguardo complessivo diventa ancor più chiaro.

Eppure, se questa è l’apparenza, non si capisce con questo schema la necessità dell’analisi di Talotta, cioè non si è detto niente riguardo le motivazioni della sua storia pittorica, che è fatta non di casualità né solo di necessità, ma di scelte consapevoli. A mio parere, è facile capire quale sia questa necessità legata ad una scelta formale, che in fondo è la necessità che abita la parte più intima di ogni pittore, di ogni artista: quella di lasciare un segno e che questo segno diventi autonomo e indipendente anche dall’autore stesso di quel segno. Come se l’unica garanzia che abbia un pittore perché la sua opera acquisti senso è che questa opera parli una sua lingua propria, inventi un suo linguaggio e delinei la sua propria necessità, che alla fine dunque non è più neanche quella dell’artista.

In questo senso allora le tappe chiare dello sviluppo della pittura di Talotta, che possiamo scandire per tre decenni principali (1979-1989, 1989-1999, 1999-2009) diventano significative: non solo lasciare un segno ma far sì che questo si spieghi da sé.

Ecco perché si è paragonata la sua ricerca ad una sorta di scienza e analisi, che verrebbe anche giustificata dall’interesse per la pittura di Talotta che ebbe il critico Filiberto Menna, celebre autore di un testo fondamentale per la storia dell’arte italiana e non, quale La linea analitica dell’arte moderna. Appunto “linea analitica”, quella stessa che si dipana nella vicenda storica della pittura di Talotta.

E questo sul piano formale, cioè astratto e visivo.

Ma esiste poi anche un piano materiale, quale appunto quello delle ceramiche e quello della juta grezza che Talotta usa spesso nella sua naturale cromia per inquadrare le sue campiture, delle quali si rendono visibili anche le trame, i nodi, gli odori stessi della juta. E mentre la juta diventa colore naturale e alla pari con i colori accesi delle sue opere, le ceramiche lasciano trasparire crepe, contrazioni e spaccature della materia quali ne fossero segni spontanei, un raccontarsi non più solo della linea e della superficie, ma della carne della pittura, quella carne che la pittura non dovrebbe avere in linea di principio ma che ritrova in queste forme concrete e tridimensionali. Potremmo dire scultoree, se non fosse che queste opere in ceramica sembrano preferire gli spazi vuoti ritagliati nei pieni come fossero lettere di un alfabeto inesistente, ma che a loro volta sono quasi sempre pareti da leggere come quadri.

In tal senso la ricerca di Talotta, che è ispirata esplicitamente da quelle mentali e avanguardistiche di Fontana e quelle materiali e informali di Burri, ripercorre una strada tracciata dai dipinti di Arturo Bonfanti e dalle sculture a due dimensioni di Pietro Consagra, due artisti forse minori per fama universale rispetto ai due più grandi e acclamati maestri appena citati,  ma di certo di grande originalità e intima e segreta ispirazione.

Difficile definire Talotta, anche per via della sua anagrafe, un pittore d’avanguardia (sempre che questo debba essere automaticamente un merito), più spontaneo e motivato dirlo un pittore di ricerca, una ricerca coerente e fatta di piccoli passi, eremitica laddove nelle sue opere aleggia comunque un’atmosfera di quiete e di silenzi, essenziale per via di una segnaletica coloristica e formale ben riconoscibile, ridotta all’osso, mai superflua. E se a questa ricerca si aggiunge il fatto di aver lavorato sostanzialmente in solitudine (e non si vede come si possa fare ricerca in modo diverso), ai margini, quel suo segno che si racconta da sé diventa anche metafora di un camminare ai confini della pittura, considerando che i confini sono astrazioni che non hanno luogo perché partecipano sempre a più luoghi che delimitano in modo artificioso. Se possiamo ricavare dall’opera di Talotta un insegnamento (e in questa parola emerge con forza e discrezione il termine “segno”), è dunque un valore etico della pittura e della forma quello che ci verrà comunicato, una filigrana, questo sì, che ha sempre caratterizzato ogni ricerca d’avanguardia nel senso moderno e modernista del termine e non in quello contemporaneo, dal momento che la contemporaneità ha ormai abbandonata la ricerca a favore della spettacolarità e della perversione scandalistica, effetti transculturali e non più etici.

Nelle opere di Talotta, anche nelle sue prime impronte di pneumatici su tela, che l’artista creava facendo realmente camminare la propria automobile sulla superficie immacolata del supporto, si ravvisa dunque la storia essenziale della pittura di ogni epoca. Una storia di un gesto mentale incarnatosi in una materia, in forme e colori che sono quello che appaiono e che raccontano un’altra storia, più intima, privata, utopica perché senza luogo reale se non quello recluso dello studio del pittore e del suo immaginario poetico e lirico. Una pittura povera quella di Talotta ma non povera pittura che vuole essere compatita, bensì contemplata con uno sguardo che appartiene più all’occhio di un mistico che a quello di un esteta, come inconsciamente credo testimoni la forma di dittico che Talotta ha dato a molte delle sue opere più recenti. Del resto il santo Graal, la mitica coppa nella quale si è racchiuso e simboleggiato uno dei dogmi più straordinari e complessi della fede cristiana,  non poteva certo essere un calice d’oro tempestato di diamanti, bensì una povera coppa di legno consumata dal tempo e che il tempo ha preservato intatta nel suo mistero e nella sua irraggiungibilità.

 

Marco Tonelli, presentazione mostra antologica – Dai “Tracciati Urbani”1979 ai “Dittici” 2011, Palazo degli Alessandri, Viterbo, aprile/maggio 2012.

 

…Se il ceramista per più di duemila anni ha aggregato argille ed altre terre con acqua e fuoco per costruire e modellare strutture, arricchendole poi con sovrastrutture plastiche o pittoriche, il fenomeno di Talotta è certamente inverso: una controtendenza che può far definire audace ed innovativo il suo “fare ceramica”.

Invece di modellare aggiungendo, Talotta opera sulla materia levando e tagliando con penetrazioni di vuoto come cunei di energia che segnano ed individuano nuovi corpi o spazi nell’argilla.

E, come per Leoncillo che “togliere la creta col filo” era stato un atto decisivo, crudele e liberatore, anche per Talotta i tagli delle sue ceramiche sono fondamentalmente un atto liberatorio. Infatti per lui l’asportazione della materia è un sorta di penetrazione che mette in comunicazione l’esterno con il centro delle sue opere da dove si sprigiona una potenziale energia che invade lo spazio intorno.

Quindi i suoi “generatori” sono il risultato dell’evidenziazione di un invisibile percorso di flussi tra le energie interne del corpo ceramico e l’area circostante da dove sembrano rientrare verso la ceramica seguendo lo stesso tragitto. Un’osmosi, alla fine, sia centrifuga che centripeta che identifica uno spazio globale (scultura+spazio esterno) dinamico ma di delicata e quasi impercettibile visione.

Infatti il gesto artistico dei “tagli generatori” di Talotta è sempre molto calmo e misurato e il progetto di invasione dello spazio esterno è molto severo e ridotto all’essenziale.

Non a caso, nel 1988, Filiberto Menna aveva definito Talotta “artista severo fino all’ascetismo”.

Guido Mazza,
da: presentazione mostra “Ceramiche” al Museo della Ceramica,
Palazzo Brugiotti,
Viterbo, maggio 2000

 

Tutto si compone e si contrasta tramite un ricorso ad elementi minimali, qualì esiti di un estrema riduzione nella proposta azzerante di Alfonso Talotta, che si confronta con i nuclei creativi e gli svolgimenti artistici nell’ambito dell’astrazione.

La sua ricerca pittorica procede, ormai dagli anni Ottanta, sul versante di un’arte analitica che.riflette su se stessa e sui mezzi del fare arte, quali protagonisti nell’ elaborazione di un’opera dichiaratamente intransitiva ed autosignificante. In tal senso Filiberto Menna aveva, a suo tempo,           avvicinato l’artista “all’ astrazione povera, per indicare la volontà di riduzione che la contraddistingue dopo il grande banchetto cromatico, materico, segnico della pittura postmoderna”.

Adottando un procedimento sottrattivo nella pittura “al nero’, quasi agli inizi del suo percorso creativo, permette indirettamente l’emersione sulla tela di frammenti lineari, quasi in corto circuito, per lo scarto minimo delle loro “lunghezze d’onda” generatesi in un campo magnetico globale; addirittura, in alcuni casi, i segni fendono il supporto, lasciandolo affiorare, o, nel tentativo di creare struttura, rivelano un equilibrio precario, quasi sul filo del rasoio.

L’artista è recentemente giunto, sempre seguendo un’indagine “sottrattiva-costruttiva” ad offrire allo sguardo dell’osservatore forme elementari, prossIme alla geometria, pur se scaturite da libera creazione che dissolve il rigore matematico, per affidarsi al caso; sono suggerite dal contrasto simultaneo tra superficie del supporto e stesura cromatica vibratile, producono tensione ogni volta o un dialettico alternarsi tra spinte e controspinte, diventando motori di energia,testimoniano una presenza contraddicendo l’assenza…

Alessandra Scappini,
da: presentazione mostra alla Galleria d’Arte “Liba”,
Pontedera (PI), maggio 1999

 

Nella ricerca di Alfonso Talotta il valore della linea è sempre scaturito sulla superficie in stretto accordo con il colore, risultando dall’accostamento di due stesure cromatiche dalle sottili e insinuanti traiettorie. Il carattere di queste linee è ambivalente: esse sono presenti in quanto assenti, disegnate dai margini del colore, segnate da minime sbavature del pennello, in stretta relazione con la tela vuota, non dipinta, pervasa dalla luce del bianco.

Le linee, inoltre, sono dei rilevatori di campo, saggiano lo spazio della pittura da diversi punti di vista, con differenti entrate ed uscite, dentro e oltre i margini del supporto.

Le ultime opere proseguono con forte coerenza l’approfondimento di queste ragioni costruttive ed emotive.

Talotta ha fatto ora incontrare i segni e dalla congiunzione delle linee sono nate alcune forme ricavate dalla tela non dipinta. Si tratta di figure astratte e bianche, luoghi dell’assenza ma non privi di ragione pittorica, forme svuotate di materia che contrastano con il nero dipinto e saturo.

Questa relazione fondamentale tra pittura e non pittura si risolve nell’equilibrio unitario dell’immagine che contiene l’esito imprevedibile delle forme, la pienezza con cui esse nascono nel vuoto perseguendo in esso l’utopia dello spazio assoluto.

Claudio Cerritelli,
da: presentazione mostra “In nome dell’Astratto” Museo delle Arti di Nocciano (PE), gennaio 1996;
Palazzo Ducale di Revere (MN), maggio 1996

 

… il nero di Talotta. Guizzi di bianchi sinuosi interrompono il grande velo nero, sottolineandone l’essenza. Difficile l’approccio alla tela di    questo artista che si misura con superfici di grandi dimensioni e che riesce a creare la visione dello spazio cosmico.

Tiziana Leopizzi
da: Next n.24
primavera-estate 1995

 

… dalle “frequenze” verticali bianco su nero …
… agli incastri formali, in chiave introspettiva di Talotta.
… Quanto a una analisi, più linguisticamente puntuale della nuova fenomenologia del segno, ci si era cimentato Collovini già nel 1990 in Linea Immaginata, nel Palazzo degli Alessandri, a Viterbo (replicata poi a Udine, Bolzano e Livorno) considerando il lavoro tutto in chiave lirica dunque di Talotta, …

Enrico Crispolti
da: La Pittura in Italia, Il Novecento/3  Le ultime ricerche,
Electa, Milano 1994

 

…Dal 1988 Alfonso Talotta inverte la tradizionale prassi pittorica evitando esplicitamente di intervenire con il segno sul piano.

Paradossalmente le sue tracce crescono in negativo,lavorando esclusivamente sulla superficie dalla quale emerge, nelle parti non trattate, il viluppo segnico progettato concettualmente, pensato a priori. La necessità di sviluppare una presa più diretta  nei confronti dello spazio lo ha poi portato, nel ‘92, a lavorare sullo spessore della tavola  lignea, per afferrare così una spazialità, non più virtuale ma fisica.Il ciclo in mostra , denominato Perforazione segnica, vede, in ogni opera, brevi tracce, ottenute sempre in negativo, ma perforando il supporto  sì da rendere visibile il piano retrostante del muro.

E qui, più che sulla carta, o sulla tela, dove tutto si svolge in bidimensionalità, l’assenza si rivendica come una forte e imperativa presenza. La matrice concettuale del lavoro prende ulteriore corpo nei  dittici, dove due tavole sono unite con la finalità di creare un nucleo segnino centrale o, quando le tracce perforate restano separate, per produrre una tensione centrifuga.

L’aspetto più pittorico, quindi surriscaldato, si concentra, invece, nell’intervento sulla superficie.Colori ad acqua, acrilici, olio si  alternano con disinvoltura, sempre attenti a non lasciare tracce grezze e aggettanti. Il colore, a olio, per sua natura più grasso, viene asportato e ripulito con carta da giornale o stracci per giungere a una superficie liscia e priva di qualsiasi corpo materico.

A Talotta, infatti, non interessa ciò che sta sul piano, ma dietro, sotto il piano. Il suo è un lavoro che si sviluppa sull’atto del togliere, dello scoprire, nella consapevolezza di quelle che saranno le scoperte…

Sabrina Zannier,
da: Flash Art,
aprile 1993

 

Less in more: nella nota frase di Mies Van der Rohe sembra risiedere il credo artistico di Alfonso Talotta, che il compianto Filiberto Menna aveva inserito nei ranghi dell’ “astrazione povera”.

Alfonso Talotta affonda le radici del suo “fare arte” in una  riflessione sulla grammatica dell’astrattismo ridotta all’osso. Menna aveva puntualizzato, in uno scritto dell’88, “la capacità dell’artista di articolare la superficie mediante forme appena accennate, sfuggenti e precarie”, mentre Diego Collovini, che segue da tempo il lavoro di Talotta, lo ha definito parte di una “astrazione analitica”, caratterizzata da “un approfondimento di alcuni elementi di un certo linguaggio artistico, quello del colore, del segno, della superficie” (Collovini, 1990).

Una pittura azzerata e asettica, dove la campitura monocromatica sprofonda all’interno del quadro grazie ad operazioni minimali legate all’atto del “togliere” materia alla tela, fino a raggiungere una fitta trama chiaroscurale dove compaiono alcune linee interrotte, segni sottili che si strutturano nel piano come presenze appena accennate, pallidi guizzi vettoriali, attonite  evanescenze lineari.

L’alternanza di segni e superfici, linee e cromie crea un discorso tra presenza ed assenza, pieno e vuoto, ulteriormente accentuato nelle opere più recenti, dove una nuova tensione verso la solidità volumetrica ha portato Talotta a perforare il supporto per introdurre le traiettorie segniche, che hanno assunto in queste “perforazioni segniche” connotati spaziali.

Dunque nell’economia del dipinto, che si esauriva in precedenza nel raccordo segno-superficie all’interno di una riflessione linguistica sull’essenza stessa dell’astrazione pura, si inserisce ora con prepotenza la componente tridimensionale, spostando l’accento sull’inserimento dell’opera nell’ambiente che la ospita, aprendo la strada a nuovi rapporti con lo spazio e la luce.

Ludovico Pratesi,
da: presentazione mostra alla Galleria d’Arte “Di Sarro”,
Roma, ottobre 1992

 

… in questo ciclo S (che sta come segno, come superficie, come sintassi, ma anche come silenzio, come solitudine, e che non vuole stare come semanticità, né come spettacolarità), Alfonso Talotta ha compiuto, seppur così giovane, il ciclo della castigatezza e della restituzione minimale di tutte le qualità della pittura…

…Ma nel procedimento astrattivo e minimalizzante, Talotta si è arrestato là dove ha scorto la possibilità di annientamento dell’arte stessa, la maniera. Ed ha trasformato questo raggiungimento ed esibizione del limite (la costruzione monocromatica della superficie) in una nuova possibilità per l’arte, nel far trapelare un suo desiderio, una volontà: far lavorare la fantasia, pur nell’assenza totale di stimoli. Ecco entrare i segni. I segni-nonsegni sono generati dall’aver egli pensato ad un certo punto di lasciare affiorare il fondo (facendo così divenire segno un desiderio e un micro progetto).

Nella loro illusorietà di provenienza dall’esterno, ci attraggono nell’intreccio inestricabile del visibile e del non visibile, di un mondo che c’è e di un altro luogo migliore in cui però non c’è nulla. Resistono a queste illusioni disillusioni. Anzi conservano tutt’una inquieta, quasi banale, flagranza come graffiti primitivi in uno spazio buio di caverna, pur non essendo “tracciati e graffiati”, ma spiragli vuoti.

…Questa grazia è il portato di quei segni sorprendenti che sembrano uscire dal nulla; è l’effetto di un procedimento costruttivo che raccoglie tutti i valori della pittura ma che pare, alla fine, più rifiutato che accettato.

…La pratica minimale, arrestandosi, ha dato così spazio in extremis allo scatto fantastico, al disturbo e alla sorpresa del segno, cogliendo il suo stesso stato nascente.

Sottraendo progressivamente il superfluo, navigando minimalmente nella pittura, Talotta raggiunge proprio, e rivela, il momento di germinazione del fare.

Simonetta Lux,
da: presentazione mostra alla Galleria d’Arte “Delise”,
Portogruaro (VE), febbraio 1990

 

… una sorta di astrazione analitica (o di astrazione povera come Filiberto Menna aveva definito la pittura di Talotta in occasione di una sua esposizione a Roma).

E’ un’astrazione operata su di una  precedente astrazione, in quanto   l’elemento linguistico percettivo-che è quello che si propone oggetto di indagine di studio-viene ad essere isolato da altri con i quali ha sempre vissuto in relazione; analitica perché la riduzione a pochi elementi si fa passaggio da una complessità espressiva ad una comunicazione più semplice, è un’interpretazione di un linguaggio nei settori degli elementi più specifici appartenenti al mondo dell’arte: la superficie e il segno-linea.

La superficie per Alfonso Talotta si viene a definire come elemento a se stante e perciò privo di ogni funzione ricettiva del colore come strumento di interpretazione emotiva o emozionale. Questo piano bidimensionale tende a diventare teatro del movimento della luce, che corre su segni-assenza, su minime  variazioni tonali, fino a fissarsi all’interno del quadro, creando così una frattura formale con il “nero-colore”, che spinge verso un’integrazione ottico-percettiva attraverso linee, le quali danno alla superficie una dimensione spaziale, una concretizzazione visiva sottilmente sensibile.

Spazio e linea sono elementi che si fondono l’uno con l’altro, e danno all’opera una letterarietà autonoma che si sorregge sull’asciuttezza della campitura monocromatica.

È un monocromatismo quello di Talotta che copre l’intero spazio pittorico, in modo da impedire allo sguardo dell’osservatore qualsiasi ulteriorità legata ad una personale interpretazione di tipo magico-metaforico…

Diego Collovini,
da: presentazione mostra alla galleria d’Arte “Plurima”,
Udine, giugno 1989

 

… In merito ad Alfonso Talotta giustamente Menna asseriva che l’artista ripercorre il rituale classico della pittura, un fare che si esplica nell’uso di materiali canonici e in una gestualità i cui esiti materici sono comunque filtrati da un sostrato progettuale che ne orienta in definitiva il lavoro.

Opere, quindi, dalle cui nere e velate epidermidi riemergono altre valenze ed umori, nonché gli ambigui ed icastici “segni” delle cromie assenti.

Paolo Centioni,
da: Flash Art, n.151,
estate 1989

 

… questo tipo di pittura, si traduce a sua volta, da parte dello spettatore, in una situazione di ascolto. E ciò che si ascolta, in questo genere di percezione, è il silenzio. Il silenzio come realtà che è contenuta nel “contenuto” di quella idea di indefinito che viene espressa dall’elemento della superficie. È chiaro che a una tale consistenza di risultato si può arrivare solo se si è dotati di una qualità di valore interiore del tutto particolare: la sottigliezza. Sottigliezza che se è indispensabile per poter marcare impressionisticamente (al nero) la superficie, è altrettanto indispensabile per poter tracciare significativamente (al bianco) l’altro elemento di base delIa pittura di questo artista: il segno-linea, che si presenta sia come “figura” che come “scrittura”.

… Un segno-linea, che, pur essendo nitido e semplicissimo, contiene un alto grado di ambiguità; a partire dal fatto che il suo colore, il bianco, non è ottenuto dalla tavolozza,  ma è tratto dalla stessa tela: non è un segno dipinto, ma un segno che dipinge.

E’ un segno che si fa leggere su tre livelli diversi. Prima, in  quanto dato della tela, è un sotto-segno, è il contro-segno del nero; poi, in quanto fenditura della superficie nera, è un sopra-segno che ad essa si sovrappone; infine, in quanto elemento strutturante della superficie stessa, di cui determina la stabilità e lo stato di consistenza, è un segno di linguaggio coestensivo con la superficie. Basta dir questo per rilevare lo spessore mentale del lavoro di Talotta, il quale, in questo modo, mostra di saper stare alla pari con gli artisti che si qualificano per la loro capacità di concentrare nel massimo della semplicità il massimo della complessità.

Cesare Milanese,
da: Next,
settembre-ottobre 1989

 

Tre mostre a Roma stanno a dimostrare, sotto diversi aspetti, il rinnovato interesse dell’arte contemporanea per la costruzione. L’attenzione al progetto dell’opera, alla struttura rigorosa e logica della sua ideazione e l’abbandono al romantico sentire dell’espressività soggettiva e personalistica dell’artista tornano nel lavoro più recente…

Alfonso Talotta espone, invece alla Jartrakor (via dei Pianellari 20). Tele nere, compatte e perfettamente bidimensionali su cui l’artista crea, con un’esile traccia bianca, la sagomatura d’una forma geometrica, astratta, fortemente ingrandita che si protende verso i margini estremi del quadro. In tal modo il nero del piano è diviso fra l’interno e l’esterno della forma.

Una doppia, diversa tonalità del colore accentua questo senso di variazione, che è sottile, però, affiora lentamente dall’opera e si diffonde discretamente per la superficie. E’ come un monocromo “mancato”, su cui l’artista è intervenuto per spazialità di forme minime, quasi assenti che sostengono l’identità della superficie e le danno struttura.

Lorenzo Mango,
da: Paese Sera,
23 febbraio 1988

 

Le semplici strutture astratte, basate su motivi decorativi elementari, che Talotta costruisce sulla tela utilizzando poche campiture, nero su nero, separate da una sottile striscia bianca di confine, sono eseguite con la leggerezza di un appunto, di una prova.

L’atteggiamento di Talotta è senza retorica, quasi disarmato, ma autentico. Far vedere questo insieme di lavori, dei quali colpisce la forte unità estetica, che testimoniano un momento di formazione, di sforzo, di nascita dell’identità di un giovane artista, mi è sembrato utile perché Talotta è un caso esemplare.

Egli non maschera il suo disagio di fronte alla bellezza, non si finge sicuro di se, ma procede a piccoli balzi, rispettando il discontinuo apparire delle idee con una freschezza che nessun manierismo sa cogliere.

Questa mostra è un’ulteriore prova che ormai l’arte dei grandi maestri ufficiali non è più credibile fino in fondo, perché schiacciata dalle terribili macchine pubblicitarie e umiliata dall’organizzazione commerciale del gusto. I giovani più sensibili oggi non si fidano dei miti ma vogliono imparare a riconoscere dentro se stessi il sottile richiamo della bellezza.

Questo appartarsi, questo voler ridurre l’immagine a poche variabili,rivela una volontà di purezza, un ricominciare da zero.

Sergio Lombardo,
presentazione mostra “Zero” alla Galleria d’Arte “Jartrakor”,
Roma, gennaio 1988

 

..Rispetto alle dominanti espressioniste, narrative, decorative, citazioniste, che hanno contassegnato l’arte tra la fine degli anni settanta e i primi degli anni ottanta, l’opera di Alfonso Talotta si iscrive all’interno di un’area di esperienze segnate, invece, da una dominante riduttiva-costruttiva. Come altri artisti operanti in Italia, sulla cui opera mi sono già più volte soffermato, Talotta ha scelto la via della riduzione linguistica, della sottrazione spinta, talvolta, fin quasi a una sorta di azzeramento: intanto, sottrazione del racconto, di una figurazione che è venuta assumendo aspetti sempre più facili e accattivanti; sottrazione del colore, soprattutto, e riduzione della pittura a superfici prevalentemente monocromatiche, in cui è possibile cogliere gli scarti minimi necessari per far affiorare un’immagine e lasciarla in sospensione, tra visibile e invisibile.Protagonista dell’opera è lo spazio, o, meglio, la superficie dipinta intesa come un continuum pittorico dentro il quale possono anche apparire forme discrete e finite.

…Il lavoro di Talotta rivela una decisione monocromatica ed i procedimenti di riduzione si orientano verso una pittura “nera”, fatta di stesure di colore asciutte, che aderiscono al supporto e quasi si confondono con esso. La materia pittorica non “copre” la superficie, non la nasconde spiazzando l’attenzione dell’osservatore con l’ausilio di espedienti aneddotici, ma, ancora una volta, la costruisce definendo, in pari tempo, una serie di immagini facendole emergere dal fondo buio per differenze e scarti cromatici e luminosi.

Ciò che conta, in ultima istanza, nel lavoro di Talotta è, quindi, la struttura sintattica del quadro, che finisce con l’assorbire in sé ogni tentazione, ogni suggestione evocativa.

Filiberto Menna,
da: presentazione mostra “La pittura ha bene le sue esigenze, la pittura” alla Galleria d’Arte “Arco di Rab”,
Roma, aprile 1986

 

…Alfonso Talotta parte da un supporto linguistico caro alla allora giovane generazione pittorica della “ Scuola di Piazza del Popolo”,

ovviamente per stravolgerlo e condurlo, attraverso l’imprescindibile   esperienza concettuale, ad esibire uno spazio “naturale” nel quale si attua la “pratica dell’evento” e si concreta l’oggetto della pittura.

Giuseppe Gatt
da: presentazione mostra “Arrigo di Cornovaglia”, Palazzo dei Papi
Viterbo, settembre 1981