Pittura di segni e di confini inafferrabili
Pittura di segni e di confini inafferrabili
La pittura di Alfonso Talotta è un incastro esatto di pietre tagliate e affiancate da abili scalpellini a formare un muro dritto e senza crepe. O meglio, è la storia della sua vicenda pittorica nel suo svolgimento cronologico a presentarsi con questa esattezza. In altri ambiti della creatività, diremmo che la sua poesia pittorica si basa su di un principio scientifico, quello dello sviluppo e del segno (ma le due cose non sono separabili) nel corso di una lunga ricerca sulla forma e il colore.
Il percorso e le tappe della pittura di Talotta sono fin troppo chiari, come dimostra l’occasione di questa sua prima mostra antologica di ampio respiro, il respiro di una vita: 1979-2011.
Dalle impronte lasciate dai pneumatici di un’automobile su tela, ai primi segni che tagliano lo spazio e che poi si incontrano a ritagliare campi cromatici chiusi come appezzamenti di terra visti dall’alto, che via via si arricchiscono di altri campi fino a che in questi spazi di analisi emergono taglienti sagome a forma di vela, pinna di cetaceo, lama di coltello o semplicemente cuneo. Se a questa ricerca bidimensionale affianchiamo quella in tre dimensioni sperimentata ampiamente nella ceramica, lo sguardo complessivo diventa ancor più chiaro.
Eppure, se questa è l’apparenza, non si capisce con questo schema la necessità dell’analisi di Talotta, cioè non si è detto niente riguardo le motivazioni della sua storia pittorica, che è fatta non di casualità né solo di necessità, ma di scelte consapevoli. A mio parere, è facile capire quale sia questa necessità legata ad una scelta formale, che in fondo è la necessità che abita la parte più intima di ogni pittore, di ogni artista: quella di lasciare un segno e che questo segno diventi autonomo e indipendente anche dall’autore stesso di quel segno. Come se l’unica garanzia che abbia un pittore perché la sua opera acquisti senso è che questa opera parli una sua lingua propria, inventi un suo linguaggio e delinei la sua propria necessità, che alla fine dunque non è più neanche quella dell’artista.
In questo senso allora le tappe chiare dello sviluppo della pittura di Talotta, che possiamo scandire per tre decenni principali (1979-1989, 1989-1999, 1999-2009) diventano significative: non solo lasciare un segno ma far sì che questo si spieghi da sé.
Ecco perché si è paragonata la sua ricerca ad una sorta di scienza e analisi, che verrebbe anche giustificata dall’interesse per la pittura di Talotta che ebbe il critico Filiberto Menna, celebre autore di un testo fondamentale per la storia dell’arte italiana e non, quale La linea analitica dell’arte moderna. Appunto “linea analitica”, quella stessa che si dipana nella vicenda storica della pittura di Talotta.
E questo sul piano formale, cioè astratto e visivo.
Ma esiste poi anche un piano materiale, quale appunto quello delle ceramiche e quello della juta grezza che Talotta usa spesso nella sua naturale cromia per inquadrare le sue campiture, delle quali si rendono visibili anche le trame, i nodi, gli odori stessi della juta. E mentre la juta diventa colore naturale e alla pari con i colori accesi delle sue opere, le ceramiche lasciano trasparire crepe, contrazioni e spaccature della materia quali ne fossero segni spontanei, un raccontarsi non più solo della linea e della superficie, ma della carne della pittura, quella carne che la pittura non dovrebbe avere in linea di principio ma che ritrova in queste forme concrete e tridimensionali. Potremmo dire scultoree, se non fosse che queste opere in ceramica sembrano preferire gli spazi vuoti ritagliati nei pieni come fossero lettere di un alfabeto inesistente, ma che a loro volta sono quasi sempre pareti da leggere come quadri.
In tal senso la ricerca di Talotta, che è ispirata esplicitamente da quelle mentali e avanguardistiche di Fontana e quelle materiali e informali di Burri, ripercorre una strada tracciata dai dipinti di Arturo Bonfanti e dalle sculture a due dimensioni di Pietro Consagra, due artisti forse minori per fama universale rispetto ai due più grandi e acclamati maestri appena citati, ma di certo di grande originalità e intima e segreta ispirazione.
Difficile definire Talotta, anche per via della sua anagrafe, un pittore d’avanguardia (sempre che questo debba essere automaticamente un merito), più spontaneo e motivato dirlo un pittore di ricerca, una ricerca coerente e fatta di piccoli passi, eremitica laddove nelle sue opere aleggia comunque un’atmosfera di quiete e di silenzi, essenziale per via di una segnaletica coloristica e formale ben riconoscibile, ridotta all’osso, mai superflua. E se a questa ricerca si aggiunge il fatto di aver lavorato sostanzialmente in solitudine (e non si vede come si possa fare ricerca in modo diverso), ai margini, quel suo segno che si racconta da sé diventa anche metafora di un camminare ai confini della pittura, considerando che i confini sono astrazioni che non hanno luogo perché partecipano sempre a più luoghi che delimitano in modo artificioso. Se possiamo ricavare dall’opera di Talotta un insegnamento (e in questa parola emerge con forza e discrezione il termine “segno”), è dunque un valore etico della pittura e della forma quello che ci verrà comunicato, una filigrana, questo sì, che ha sempre caratterizzato ogni ricerca d’avanguardia nel senso moderno e modernista del termine e non in quello contemporaneo, dal momento che la contemporaneità ha ormai abbandonata la ricerca a favore della spettacolarità e della perversione scandalistica, effetti transculturali e non più etici.
Nelle opere di Talotta, anche nelle sue prime impronte di pneumatici su tela, che l’artista creava facendo realmente camminare la propria automobile sulla superficie immacolata del supporto, si ravvisa dunque la storia essenziale della pittura di ogni epoca. Una storia di un gesto mentale incarnatosi in una materia, in forme e colori che sono quello che appaiono e che raccontano un’altra storia, più intima, privata, utopica perché senza luogo reale se non quello recluso dello studio del pittore e del suo immaginario poetico e lirico. Una pittura povera quella di Talotta ma non povera pittura che vuole essere compatita, bensì contemplata con uno sguardo che appartiene più all’occhio di un mistico che a quello di un esteta, come inconsciamente credo testimoni la forma di dittico che Talotta ha dato a molte delle sue opere più recenti. Del resto il santo Graal, la mitica coppa nella quale si è racchiuso e simboleggiato uno dei dogmi più straordinari e complessi della fede cristiana, non poteva certo essere un calice d’oro tempestato di diamanti, bensì una povera coppa di legno consumata dal tempo e che il tempo ha preservato intatta nel suo mistero e nella sua irraggiungibilità.
Marco Tonelli, presentazione mostra antologica – Dai “Tracciati Urbani”1979 ai “Dittici” 2011, 21 aprile/13 maggio 2012, Palazzo degli Alessandri, Viterbo.