Selezione di Scritti
…Se il ceramista per più di duemila anni ha aggregato argille ed altre terre con acqua e fuoco per costruire e modellare strutture, arricchendole poi con sovrastrutture plastiche o pittoriche, il fenomeno di Talotta è certamente inverso: una controtendenza che può far definire audace ed innovativo il suo “fare ceramica”.
Invece di modellare aggiungendo, Talotta opera sulla materia levando e tagliando con penetrazioni di vuoto come cunei di energia che segnano ed individuano nuovi corpi o spazi nell’argilla.
E, come per Leoncillo che “togliere la creta col filo” era stato un atto decisivo, crudele e liberatore, anche per Talotta i tagli delle sue ceramiche sono fondamentalmente un atto liberatorio. Infatti per lui l’asportazione della materia è un sorta di penetrazione che mette in comunicazione l’esterno con il centro delle sue opere da dove si sprigiona una potenziale energia che invade lo spazio intorno.
Quindi i suoi “generatori” sono il risultato dell’evidenziazione di un invisibile percorso di flussi tra le energie interne del corpo ceramico e l’area circostante da dove sembrano rientrare verso la ceramica seguendo lo stesso tragitto. Un’osmosi, alla fine, sia centrifuga che centripeta che identifica uno spazio globale (scultura+spazio esterno) dinamico ma di delicata e quasi impercettibile visione.
Infatti il gesto artistico dei “tagli generatori” di Talotta è sempre molto calmo e misurato e il progetto di invasione dello spazio esterno è molto severo e ridotto all’essenziale.
Non a caso, nel 1988, Filiberto Menna aveva definito Talotta “artista severo fino all’ascetismo”.
Guido Mazza,
da: presentazione mostra “Ceramiche” al Museo della Ceramica,
Palazzo Brugiotti,
Viterbo, maggio 2000
Tutto si compone e si contrasta tramite un ricorso ad elementi minimali, qualì esiti di un estrema riduzione nella proposta azzerante di Alfonso Talotta, che si confronta con i nuclei creativi e gli svolgimenti artistici nell’ambito dell’astrazione.
La sua ricerca pittorica procede, ormai dagli anni Ottanta, sul versante di un’arte analitica che.riflette su se stessa e sui mezzi del fare arte, quali protagonisti nell’ elaborazione di un’opera dichiaratamente intransitiva ed autosignificante. In tal senso Filiberto Menna aveva, a suo tempo, avvicinato l’artista “all’ astrazione povera, per indicare la volontà di riduzione che la contraddistingue dopo il grande banchetto cromatico, materico, segnico della pittura postmoderna”.
Adottando un procedimento sottrattivo nella pittura “al nero’, quasi agli inizi del suo percorso creativo, permette indirettamente l’emersione sulla tela di frammenti lineari, quasi in corto circuito, per lo scarto minimo delle loro “lunghezze d’onda” generatesi in un campo magnetico globale; addirittura, in alcuni casi, i segni fendono il supporto, lasciandolo affiorare, o, nel tentativo di creare struttura, rivelano un equilibrio precario, quasi sul filo del rasoio.
L’artista è recentemente giunto, sempre seguendo un’indagine “sottrattiva-costruttiva” ad offrire allo sguardo dell’osservatore forme elementari, prossIme alla geometria, pur se scaturite da libera creazione che dissolve il rigore matematico, per affidarsi al caso; sono suggerite dal contrasto simultaneo tra superficie del supporto e stesura cromatica vibratile, producono tensione ogni volta o un dialettico alternarsi tra spinte e controspinte, diventando motori di energia,testimoniano una presenza contraddicendo l’assenza…
Alessandra Scappini,
da: presentazione mostra alla Galleria d’Arte “Liba”,
Pontedera (PI), maggio 1999
Nella ricerca di Alfonso Talotta il valore della linea è sempre scaturito sulla superficie in stretto accordo con il colore, risultando dall’accostamento di due stesure cromatiche dalle sottili e insinuanti traiettorie. Il carattere di queste linee è ambivalente: esse sono presenti in quanto assenti, disegnate dai margini del colore, segnate da minime sbavature del pennello, in stretta relazione con la tela vuota, non dipinta, pervasa dalla luce del bianco.
Le linee, inoltre, sono dei rilevatori di campo, saggiano lo spazio della pittura da diversi punti di vista, con differenti entrate ed uscite, dentro e oltre i margini del supporto.
Le ultime opere proseguono con forte coerenza l’approfondimento di queste ragioni costruttive ed emotive.
Talotta ha fatto ora incontrare i segni e dalla congiunzione delle linee sono nate alcune forme ricavate dalla tela non dipinta. Si tratta di figure astratte e bianche, luoghi dell’assenza ma non privi di ragione pittorica, forme svuotate di materia che contrastano con il nero dipinto e saturo.
Questa relazione fondamentale tra pittura e non pittura si risolve nell’equilibrio unitario dell’immagine che contiene l’esito imprevedibile delle forme, la pienezza con cui esse nascono nel vuoto perseguendo in esso l’utopia dello spazio assoluto.
Claudio Cerritelli,
da: presentazione mostra “In nome dell’Astratto” Museo delle Arti di Nocciano (PE), gennaio 1996;
Palazzo Ducale di Revere (MN), maggio 1996
… il nero di Talotta. Guizzi di bianchi sinuosi interrompono il grande velo nero, sottolineandone l’essenza. Difficile l’approccio alla tela di questo artista che si misura con superfici di grandi dimensioni e che riesce a creare la visione dello spazio cosmico.
Tiziana Leopizzi
da: Next n.24
primavera-estate 1995
… dalle “frequenze” verticali bianco su nero …
… agli incastri formali, in chiave introspettiva di Talotta.
… Quanto a una analisi, più linguisticamente puntuale della nuova fenomenologia del segno, ci si era cimentato Collovini già nel 1990 in Linea Immaginata, nel Palazzo degli Alessandri, a Viterbo (replicata poi a Udine, Bolzano e Livorno) considerando il lavoro tutto in chiave lirica dunque di Talotta, …
Enrico Crispolti
da: La Pittura in Italia, Il Novecento/3 Le ultime ricerche,
Electa, Milano 1994
…Dal 1988 Alfonso Talotta inverte la tradizionale prassi pittorica evitando esplicitamente di intervenire con il segno sul piano.
Paradossalmente le sue tracce crescono in negativo,lavorando esclusivamente sulla superficie dalla quale emerge, nelle parti non trattate, il viluppo segnico progettato concettualmente, pensato a priori. La necessità di sviluppare una presa più diretta nei confronti dello spazio lo ha poi portato, nel ‘92, a lavorare sullo spessore della tavola lignea, per afferrare così una spazialità, non più virtuale ma fisica.Il ciclo in mostra , denominato Perforazione segnica, vede, in ogni opera, brevi tracce, ottenute sempre in negativo, ma perforando il supporto sì da rendere visibile il piano retrostante del muro.
E qui, più che sulla carta, o sulla tela, dove tutto si svolge in bidimensionalità, l’assenza si rivendica come una forte e imperativa presenza. La matrice concettuale del lavoro prende ulteriore corpo nei dittici, dove due tavole sono unite con la finalità di creare un nucleo segnino centrale o, quando le tracce perforate restano separate, per produrre una tensione centrifuga.
L’aspetto più pittorico, quindi surriscaldato, si concentra, invece, nell’intervento sulla superficie.Colori ad acqua, acrilici, olio si alternano con disinvoltura, sempre attenti a non lasciare tracce grezze e aggettanti. Il colore, a olio, per sua natura più grasso, viene asportato e ripulito con carta da giornale o stracci per giungere a una superficie liscia e priva di qualsiasi corpo materico.
A Talotta, infatti, non interessa ciò che sta sul piano, ma dietro, sotto il piano. Il suo è un lavoro che si sviluppa sull’atto del togliere, dello scoprire, nella consapevolezza di quelle che saranno le scoperte…
Sabrina Zannier,
da: Flash Art,
aprile 1993
Less in more: nella nota frase di Mies Van der Rohe sembra risiedere il credo artistico di Alfonso Talotta, che il compianto Filiberto Menna aveva inserito nei ranghi dell’ “astrazione povera”.
Alfonso Talotta affonda le radici del suo “fare arte” in una riflessione sulla grammatica dell’astrattismo ridotta all’osso. Menna aveva puntualizzato, in uno scritto dell’88, “la capacità dell’artista di articolare la superficie mediante forme appena accennate, sfuggenti e precarie”, mentre Diego Collovini, che segue da tempo il lavoro di Talotta, lo ha definito parte di una “astrazione analitica”, caratterizzata da “un approfondimento di alcuni elementi di un certo linguaggio artistico, quello del colore, del segno, della superficie” (Collovini, 1990).
Una pittura azzerata e asettica, dove la campitura monocromatica sprofonda all’interno del quadro grazie ad operazioni minimali legate all’atto del “togliere” materia alla tela, fino a raggiungere una fitta trama chiaroscurale dove compaiono alcune linee interrotte, segni sottili che si strutturano nel piano come presenze appena accennate, pallidi guizzi vettoriali, attonite evanescenze lineari.
L’alternanza di segni e superfici, linee e cromie crea un discorso tra presenza ed assenza, pieno e vuoto, ulteriormente accentuato nelle opere più recenti, dove una nuova tensione verso la solidità volumetrica ha portato Talotta a perforare il supporto per introdurre le traiettorie segniche, che hanno assunto in queste “perforazioni segniche” connotati spaziali.
Dunque nell’economia del dipinto, che si esauriva in precedenza nel raccordo segno-superficie all’interno di una riflessione linguistica sull’essenza stessa dell’astrazione pura, si inserisce ora con prepotenza la componente tridimensionale, spostando l’accento sull’inserimento dell’opera nell’ambiente che la ospita, aprendo la strada a nuovi rapporti con lo spazio e la luce.
Ludovico Pratesi,
da: presentazione mostra alla Galleria d’Arte “Di Sarro”,
Roma, ottobre 1992
… in questo ciclo S (che sta come segno, come superficie, come sintassi, ma anche come silenzio, come solitudine, e che non vuole stare come semanticità, né come spettacolarità), Alfonso Talotta ha compiuto, seppur così giovane, il ciclo della castigatezza e della restituzione minimale di tutte le qualità della pittura…
…Ma nel procedimento astrattivo e minimalizzante, Talotta si è arrestato là dove ha scorto la possibilità di annientamento dell’arte stessa, la maniera. Ed ha trasformato questo raggiungimento ed esibizione del limite (la costruzione monocromatica della superficie) in una nuova possibilità per l’arte, nel far trapelare un suo desiderio, una volontà: far lavorare la fantasia, pur nell’assenza totale di stimoli. Ecco entrare i segni. I segni-nonsegni sono generati dall’aver egli pensato ad un certo punto di lasciare affiorare il fondo (facendo così divenire segno un desiderio e un micro progetto).
Nella loro illusorietà di provenienza dall’esterno, ci attraggono nell’intreccio inestricabile del visibile e del non visibile, di un mondo che c’è e di un altro luogo migliore in cui però non c’è nulla. Resistono a queste illusioni disillusioni. Anzi conservano tutt’una inquieta, quasi banale, flagranza come graffiti primitivi in uno spazio buio di caverna, pur non essendo “tracciati e graffiati”, ma spiragli vuoti.
…Questa grazia è il portato di quei segni sorprendenti che sembrano uscire dal nulla; è l’effetto di un procedimento costruttivo che raccoglie tutti i valori della pittura ma che pare, alla fine, più rifiutato che accettato.
…La pratica minimale, arrestandosi, ha dato così spazio in extremis allo scatto fantastico, al disturbo e alla sorpresa del segno, cogliendo il suo stesso stato nascente.
Sottraendo progressivamente il superfluo, navigando minimalmente nella pittura, Talotta raggiunge proprio, e rivela, il momento di germinazione del fare.
Simonetta Lux,
da: presentazione mostra alla Galleria d’Arte “Delise”,
Portogruaro (VE), febbraio 1990
… una sorta di astrazione analitica (o di astrazione povera come Filiberto Menna aveva definito la pittura di Talotta in occasione di una sua esposizione a Roma).
E’ un’astrazione operata su di una precedente astrazione, in quanto l’elemento linguistico percettivo-che è quello che si propone oggetto di indagine di studio-viene ad essere isolato da altri con i quali ha sempre vissuto in relazione; analitica perché la riduzione a pochi elementi si fa passaggio da una complessità espressiva ad una comunicazione più semplice, è un’interpretazione di un linguaggio nei settori degli elementi più specifici appartenenti al mondo dell’arte: la superficie e il segno-linea.
La superficie per Alfonso Talotta si viene a definire come elemento a se stante e perciò privo di ogni funzione ricettiva del colore come strumento di interpretazione emotiva o emozionale. Questo piano bidimensionale tende a diventare teatro del movimento della luce, che corre su segni-assenza, su minime variazioni tonali, fino a fissarsi all’interno del quadro, creando così una frattura formale con il “nero-colore”, che spinge verso un’integrazione ottico-percettiva attraverso linee, le quali danno alla superficie una dimensione spaziale, una concretizzazione visiva sottilmente sensibile.
Spazio e linea sono elementi che si fondono l’uno con l’altro, e danno all’opera una letterarietà autonoma che si sorregge sull’asciuttezza della campitura monocromatica.
È un monocromatismo quello di Talotta che copre l’intero spazio pittorico, in modo da impedire allo sguardo dell’osservatore qualsiasi ulteriorità legata ad una personale interpretazione di tipo magico-metaforico…
Diego Collovini,
da: presentazione mostra alla galleria d’Arte “Plurima”,
Udine, giugno 1989
… In merito ad Alfonso Talotta giustamente Menna asseriva che l’artista ripercorre il rituale classico della pittura, un fare che si esplica nell’uso di materiali canonici e in una gestualità i cui esiti materici sono comunque filtrati da un sostrato progettuale che ne orienta in definitiva il lavoro.
Opere, quindi, dalle cui nere e velate epidermidi riemergono altre valenze ed umori, nonché gli ambigui ed icastici “segni” delle cromie assenti.
Paolo Centioni,
da: Flash Art, n.151,
estate 1989
… questo tipo di pittura, si traduce a sua volta, da parte dello spettatore, in una situazione di ascolto. E ciò che si ascolta, in questo genere di percezione, è il silenzio. Il silenzio come realtà che è contenuta nel “contenuto” di quella idea di indefinito che viene espressa dall’elemento della superficie. È chiaro che a una tale consistenza di risultato si può arrivare solo se si è dotati di una qualità di valore interiore del tutto particolare: la sottigliezza. Sottigliezza che se è indispensabile per poter marcare impressionisticamente (al nero) la superficie, è altrettanto indispensabile per poter tracciare significativamente (al bianco) l’altro elemento di base delIa pittura di questo artista: il segno-linea, che si presenta sia come “figura” che come “scrittura”.
… Un segno-linea, che, pur essendo nitido e semplicissimo, contiene un alto grado di ambiguità; a partire dal fatto che il suo colore, il bianco, non è ottenuto dalla tavolozza, ma è tratto dalla stessa tela: non è un segno dipinto, ma un segno che dipinge.
E’ un segno che si fa leggere su tre livelli diversi. Prima, in quanto dato della tela, è un sotto-segno, è il contro-segno del nero; poi, in quanto fenditura della superficie nera, è un sopra-segno che ad essa si sovrappone; infine, in quanto elemento strutturante della superficie stessa, di cui determina la stabilità e lo stato di consistenza, è un segno di linguaggio coestensivo con la superficie. Basta dir questo per rilevare lo spessore mentale del lavoro di Talotta, il quale, in questo modo, mostra di saper stare alla pari con gli artisti che si qualificano per la loro capacità di concentrare nel massimo della semplicità il massimo della complessità.
Cesare Milanese,
da: Next,
settembre-ottobre 1989
Tre mostre a Roma stanno a dimostrare, sotto diversi aspetti, il rinnovato interesse dell’arte contemporanea per la costruzione. L’attenzione al progetto dell’opera, alla struttura rigorosa e logica della sua ideazione e l’abbandono al romantico sentire dell’espressività soggettiva e personalistica dell’artista tornano nel lavoro più recente…
Alfonso Talotta espone, invece alla Jartrakor (via dei Pianellari 20). Tele nere, compatte e perfettamente bidimensionali su cui l’artista crea, con un’esile traccia bianca, la sagomatura d’una forma geometrica, astratta, fortemente ingrandita che si protende verso i margini estremi del quadro. In tal modo il nero del piano è diviso fra l’interno e l’esterno della forma.
Una doppia, diversa tonalità del colore accentua questo senso di variazione, che è sottile, però, affiora lentamente dall’opera e si diffonde discretamente per la superficie. E’ come un monocromo “mancato”, su cui l’artista è intervenuto per spazialità di forme minime, quasi assenti che sostengono l’identità della superficie e le danno struttura.
Lorenzo Mango,
da: Paese Sera,
23 febbraio 1988
Le semplici strutture astratte, basate su motivi decorativi elementari, che Talotta costruisce sulla tela utilizzando poche campiture, nero su nero, separate da una sottile striscia bianca di confine, sono eseguite con la leggerezza di un appunto, di una prova.
L’atteggiamento di Talotta è senza retorica, quasi disarmato, ma autentico. Far vedere questo insieme di lavori, dei quali colpisce la forte unità estetica, che testimoniano un momento di formazione, di sforzo, di nascita dell’identità di un giovane artista, mi è sembrato utile perché Talotta è un caso esemplare.
Egli non maschera il suo disagio di fronte alla bellezza, non si finge sicuro di se, ma procede a piccoli balzi, rispettando il discontinuo apparire delle idee con una freschezza che nessun manierismo sa cogliere.
Questa mostra è un’ulteriore prova che ormai l’arte dei grandi maestri ufficiali non è più credibile fino in fondo, perché schiacciata dalle terribili macchine pubblicitarie e umiliata dall’organizzazione commerciale del gusto. I giovani più sensibili oggi non si fidano dei miti ma vogliono imparare a riconoscere dentro se stessi il sottile richiamo della bellezza.
Questo appartarsi, questo voler ridurre l’immagine a poche variabili,rivela una volontà di purezza, un ricominciare da zero.
Sergio Lombardo,
presentazione mostra “Zero” alla Galleria d’Arte “Jartrakor”,
Roma, gennaio 1988
..Rispetto alle dominanti espressioniste, narrative, decorative, citazioniste, che hanno contassegnato l’arte tra la fine degli anni settanta e i primi degli anni ottanta, l’opera di Alfonso Talotta si iscrive all’interno di un’area di esperienze segnate, invece, da una dominante riduttiva-costruttiva. Come altri artisti operanti in Italia, sulla cui opera mi sono già più volte soffermato, Talotta ha scelto la via della riduzione linguistica, della sottrazione spinta, talvolta, fin quasi a una sorta di azzeramento: intanto, sottrazione del racconto, di una figurazione che è venuta assumendo aspetti sempre più facili e accattivanti; sottrazione del colore, soprattutto, e riduzione della pittura a superfici prevalentemente monocromatiche, in cui è possibile cogliere gli scarti minimi necessari per far affiorare un’immagine e lasciarla in sospensione, tra visibile e invisibile.Protagonista dell’opera è lo spazio, o, meglio, la superficie dipinta intesa come un continuum pittorico dentro il quale possono anche apparire forme discrete e finite.
…Il lavoro di Talotta rivela una decisione monocromatica ed i procedimenti di riduzione si orientano verso una pittura “nera”, fatta di stesure di colore asciutte, che aderiscono al supporto e quasi si confondono con esso. La materia pittorica non “copre” la superficie, non la nasconde spiazzando l’attenzione dell’osservatore con l’ausilio di espedienti aneddotici, ma, ancora una volta, la costruisce definendo, in pari tempo, una serie di immagini facendole emergere dal fondo buio per differenze e scarti cromatici e luminosi.
Ciò che conta, in ultima istanza, nel lavoro di Talotta è, quindi, la struttura sintattica del quadro, che finisce con l’assorbire in sé ogni tentazione, ogni suggestione evocativa.
Filiberto Menna,
da: presentazione mostra “La pittura ha bene le sue esigenze, la pittura” alla Galleria d’Arte “Arco di Rab”,
Roma, aprile 1986
…Alfonso Talotta parte da un supporto linguistico caro alla allora giovane generazione pittorica della “ Scuola di Piazza del Popolo”,
ovviamente per stravolgerlo e condurlo, attraverso l’imprescindibile esperienza concettuale, ad esibire uno spazio “naturale” nel quale si attua la “pratica dell’evento” e si concreta l’oggetto della pittura.
Giuseppe Gatt
da: presentazione mostra “Arrigo di Cornovaglia”, Palazzo dei Papi
Viterbo, settembre 1981